Giorgio Barducci

giornalista

LA SURREALE VISIONE DELL’ESSERE

Solitamente, direi per quasi certificata consuetudine, quando si “deve” parlare di un artista lo si fa rovistando nel suo modo di porsi, cercando tra le pieghe dei suoi lavori una ragione, soprattutto avendo cura di non turbare, con troppo penetranti esami, il mondo che ha inteso costruire. Sia esso frutto di puro spirito o surrettizio adeguarsi alla moda. Al fine di catturarne, più che effimera gloria, sostanziosi e non disdegnevoli emolumenti.

Questa condizione mnemonica finisce per incistarsi costringendo, chi della penna ha fatto pennello, a ripetersi in frasi stereotipe che dicono tutto e il contrario di tutto. Ne vien fuori, il più delle volte, un logoro entimema secondo il quale un tale, usando colori e pennelli, non può che essere pittore.

Nel caso di Enzo Santini tutto ciò è da ortiche. Santini non va osservato in opera. Va vivisezionato cercando di metterlo nell’angolo di spoglia disadorna cella, un tempo recesso di frati trappisti, e lì indurlo ad aprirsi; a mostrarci quel caleidoscopio di immagini, di colori, di pensieri che trasudano dalle sue tele così piacevolmente capibili eppure conservanti una qualche cosa che sfugge al profano, che lo lascia perplesso perché non riesce ad estrapolare la molecola di sapere che è anima del suo lavoro.

Enzo Santini è estremamente godibile, i suoi lavori – a differenza di tanti, troppi contemporanei – consentono una lettura piana, dolcemente penetrante anche quando, nella crudezza dell’era storica, dipinge la “Rivoluzione Francese”, i suoi orrori, il suo apparente trionfo. E nel contempo è parenetico nel renderci – ancorché scettici – profondamente ammirati di fronte all’esaltazione mistica di Santa Caterina che Santini considera Sorella, quasi la stessa fosse ancora presente nel convento della vita attuale, per escutere la dicotomia esistente tra la massa prevalentemente ignorante e coloro che, a fronte di un dipinto, riescono ancora a sedersi e per lunghi pregnanti minuti tentano, talvolta riuscendoci, di fagocitarne gli impulsi.

Così, “leggendo” Santini, risentiamo versi di M.G. Parri: “torno alla mia terra / dove gli alberi sono vivi / ed il torrente vien giù / per i sassi tardi dell’età...”. Perché – o signori! – negli encausti di Enzo, nello splendido Palio che abbellisce vieppiù le “stanze” della contrada dell’Aquila, negli onirismi che gli fan disegnare Siena avendo la mente nello studio di Sano di Pietro o del buon Duccio, in tutto ciò che dipinge o fa nella vita d’ogni giorno Santini resta un ragazzo. Attento ad imparare; ancora ed ancora. E contesta C. Pavese: “Non resta di quel tempo di là dai ricordi, che un vago ricordare”. No! Enzo è agli antipodi di queste malinconie. Anziché vago il suo ricordo è sempre più netto, incisivo. Ad esso si adegua consapevole che, pur dovendo immolare alla “civiltà dei computer” (?), di questa civiltà non sarà mai sacerdote. Sul sentiero di un’arte che, oramai da tempo si è aperta la strada verso i confini della Patria, Santini va ad immolare sugli altari del vecchio e del nuovo mondo, il suo umbratilismo fatto di esplosioni di colore, di soffusi lunari silenzi, di terrificanti guerrieri che non sono mai – però – “in guardia”. Ma lui non riesce a parlarne, lui soffre di eritrofobia. Teme, parlando di sé, di arrossire. E delega a dire di sé chi, al contrario, di lui vorrebbe dire molto molto di più. Ma non trova le parole!